ESG: cosa dovrebbero essere e cosa non sono (parte 2)

di Daniele Lonardo

In un precedente articolo della nostra newsletter mensile, abbiamo approcciato il tema degli standard ESG[1], acronimo di “Environmental”, “Social” and “Governance”, indicatori che analizzano l’attività di una società o di un emittente (sia esso corporate o governativo), basandosi non solo sugli aspetti finanziari, ma valorizzando altresì i profili ambientali, sociali e di governance.

Il concetto di sviluppo sostenibile è certamente un tema complesso e altamente sfaccettato: la definizione universalmente riconosciuta risale al 1987 e si rinviene nel Rapporto “Brundtland” elaborato dalla “World Commission on Environment and Development” dal titolo “Our Common Future [2]”, nel quale viene definito come sostenibile uno sviluppo in grado di assicurare “il soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri”. I principi di equità tra generazioni hanno portato l’attenzione dei Paesi verso l’elaborazione di un nuovo concetto di sostenibilità, che si estende non solo alla dimensione ambientale, ma capace di permeare anche quella sociale ed economica.

Oggigiorno, infatti, la sostenibilità assurge a priorità chiave nell’agenda di tutti gli stakeholders, siano essi azionisti-investitori (es. migliori performance e riduzione rischi), fornitori (es. revisione supply chain e riduzione rischi), talenti (es. giovani dipendenti privilegiano aziende sostenibili), clienti (es. emergenti preferenze di acquisto, prodotti sostenibili), autorità di vigilanza e/o decisori politici, impattando trasversalmente su tutte le aree aziendali, quali ad esempio il processo di investimento, l’accesso al credito secondo parametri green, la revisione delle operazioni aziendali e/o lo sviluppo di nuovi prodotti-servizi.

Da un lato, gli investitori tendono ad includere sempre di più i fattori ESG nei loro processi di investimento; dall’altro, i decisori politici elaborano nuove politiche relative agli ESG, regolamentazioni sempre più pervasive (v. Carta degli investimenti sostenibili della Banca D’Italia, 2021[3]) ; in tale scenario, il “Green Deal europeo”, rappresenta la principale iniziativa europea in tale ambito, fissando obiettivi vincolanti volti a trasformare l’Unione Europea in un’economia moderna, efficiente sotto il profilo delle risorse e competitiva.

La combinazione della spinta normativa e di mercato verso l’affermazione del paradigma di sostenibilità sta avendo, con diversi livelli di maturità, impatti significativi sui meccanismi di governance societaria a numerosi livelli, tra cui:

  • l’integrazione dei fattori ESG tra gli elementi della strategia aziendale, anche attraverso l’articolazione degli obiettivi aziendali e la definizione di indicatori chiave di prestazione (KPI, Key Performance Indicator);
  • l’adattamento della composizione e dei meccanismi di remunerazione del board e delle figure apicali;
  • l’istituzione di presidi di governance specifici all’interno dell’organizzazione per supervisionare gli obiettivi ESG;
  • la definizione di un framework ad hoc di policy e procedure in materia ESG, ivi incluse le politiche di gestione e monitoraggio del rischio;
  • la definizione di politiche di engagement con un ampio panel di stakeholders, di modo da assicurare l’inclusione vari interessi rilevanti, nonché meccanismi finalizzati al bilanciamento di interessi potenzialmente confliggenti.

In tale contesto, tuttavia, non mancano le criticità che dovranno essere affrontate nel futuro prossimo, quali ad esempio:

  • la necessità di uniformare, quanto più possibile e a livello globale, i criteri ESG e di sostenibilità (cd. tassonomia standardizzata);
  • la necessità di rendere facilmente fruibile l’informazione in tema ESG e di sostenibilità, anche attraverso la divulgazione di documentazione chiara e facilmente comparabile (trasparenza);
  • l’opportunità che i controlli, sia interni che esterni, siano efficaci, affinché tutti gli stakeholders possano fare affidamento sui parametri green, al momento di prendere le decisioni di investimento (lotta al greenwashing).

Da ultimo, e con specifico riferimento agli investitori istituzionali, occorre evidenziare che se da un lato questi ultimi sono soliti adottare rigorosi processi di due diligence nella valutazione dei loro managers esterni, dall’altro solo le istituzioni più lungimiranti sono oggi all’opera per costruire sistemi di rating condivisi ed aperti. Sul punto, ed in occasione della “Consultazione sulla strategia rinnovata della finanza sostenibile[4]” lanciata dalla Commissione Europea nel 2020, la Banca Centrale Europea (BCE) aveva avanzato – già in allora – l’ipotesi di costruire un unico database pubblico europeo contenente le informazioni ESG delle imprese, e tale da poter essere fruito in maniera gratuita da tutti gli operatori del mercato. Tuttavia, nonostante tale strumento possa fungere da leva per valorizzare tali informazioni, si riscontra come tale patrimonio sia detenuto, in concreto, dai soli provider di analisi unitamente all’assenza di qualsivoglia standardizzazione e comparabilità tra le valutazioni rese in ambito ESG.

 


Articolo tratto dal convegno on-line “GLI INVESTIMENTI ESG E SOCIALMENTE RESPONSABILI TRA SCENARIO ATTUALE E PROSPETTIVE FUTURE” del 18 marzo 2022

[1] Cfr. https://ambrosioecommodo.it/approfondimenti/esg-cosa-dovrebbero-essere-e-cosa-non-sono/

[2] Cfr. https://www.are.admin.ch/are/en/home/media/publications/sustainable-development/brundtland-report.html

[3] Cfr. https://www.bancaditalia.it/compiti/riserve-portafoglio-rischi/cis/CIS-ita.pdf

[4] Cfr. https://ec.europa.eu/info/sites/default/files/business_economy_euro/banking_and_finance/documents/2020-sustainable-finance-strategy-consultation-document_en.pdf

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