ESG: COSA DOVREBBERO ESSERE E COSA NON SONO

di Edoardo Maria Commodo

Negli ultimi anni chiunque di noi avrà senz’altro sentito parlare, per un motivo o per l’altro, di ESG, acronimo tra i più in voga del momento nonostante in pochi ne conoscano il significato.

Partiamo quindi dalle basi, chiarendo che cosa sono questi ESG? Ciascuna delle tre lettere fa riferimento ad un criterio di valutazione adottato per “misurare” la capacità delle aziende e delle industrie di aderire a modelli compatibili con il c.d. sviluppo sostenibile. Questi parametri nello specifico si sostanziano in tre diverse categorie:

Environment. La capacità aziendale di svolgere le proprie attività, qualunque esse siano, in modo responsabile nei confronti dell’ambiente, per contribuire a quello che si presenta quale primario fronte di battaglia per le generazioni presenti e future, ovvero la lotta al cambiamento climatico;

Social. Le attività aziendali, decisioni, gestione interna, iniziative di ogni sorta che abbiano un impatto sociale. Il delicato discorso della parità di genere, le condizioni lavorative dei dipendenti, l’assoluta abolizione di qualsivoglia segnale di discriminazione, in buona sostanza, la massima attenzione ed il rispetto dei diritti umani. La S rappresenta quindi il concreto sviluppo di un’immagine positiva dell’azienda in questione.

Governance. Forse quella delle tre lettere con meno appeal, ma certamente da non trascurare. Riguarda quel parametro dedicato alla responsabilità nella gestione di un’impresa nelle sue varie declinazioni, quali la composizione dell’organo amministrativo, il rispetto della meritocrazia, dei diritti degli azionisti, della privacy, la remunerazione del comitato esecutivo e del consiglio d’amministrazione e la qualità e diversità degli organi direttivi.

Gli standard ESG non rappresentano unicamente dei parametri “etici” concepiti in ambito economico, bensì ambiscono a divenire un vero e proprio “scopo” aziendale, affinché le imprese affianchino al proprio oggetto sociale, oltre allo scopo lucrativo, una finalità di beneficio comune, operando in modo responsabile, sostenibile e trasparente. L’applicazione dei parametri oggetto della nostra riflessione si pone inoltre come un elemento competitivo di mercato, volto a favorire o premiare da un punto di vista finanziario quelle realtà che, appunto, adottino un percorso tendente ad una gestione efficiente e strategica delle risorse a disposizione, siano esse naturali, finanziarie, umane o relazionali.

Non è certo necessario essere navigati economisti per comprendere come l’integrazione del modello ESG aziendale sia certamente qualcosa essenziale visti i tempi che corrono. L’obiettivo è quello di superare il dogma della mera ricerca del profitto nel breve periodo e, di conseguenza, configurare in capo alle attività economiche, private e non, una definitiva e reale funzione sociale.

Eppure, gli scetticismi e le critiche anche su un argomento così “pacifico” non tardano ad arrivare.

Non si discute tuttavia sulla bontà o meno dei criteri del caso ma sulla loro effettiva applicazione e relativa verifica. Il timore diffuso è quello che gli indici e le certificazioni di “Enviromental, Social and corporate Governance”, restino quindi soltanto parole di tendenza, una sorta di targhetta sulla porta di ingresso delle grandi multinazionali per addolcire l’opinione pubblica verso queste ultime, senza alcuna specifica sui bilanci di fine anno e, soprattutto, senza alcuna reale modifica al proprio sistema organizzativo o produttivo.

Tra i più criticati vi sono i grandi nomi del mondo della moda, ai quali viene pubblicamente contestato l’utilizzo delle certificazioni etiche non quale strumento di verifica e controllo – funzione per la quale sono state introdotte – ma quali titoli da esporre con orgoglio sui social e nelle campagne pubblicitarie, pur rimanendo ampiamente discutibili le condizioni dei propri operai nelle filiere produttive.

Ci si domanda quindi, come è possibile che una così evidente violazione di norme poste per la tutela dei diritti dei lavoratori e, soprattutto, della nostra amata terra, possa venire così grossolanamente ignorata dagli organi preposti al controllo della corretta applicazione dei criteri ESG?

La risposta, ahinoi, è molto semplice e la motivazione tristemente sempre la stessa.

Parrebbe infatti – sul punto è intervenuto recentemente il Prof. Luca Poma con un articolo, rappresentando con chiarezza tutte le problematiche dell’argomento di cui trattiamo oggi – che le società di auditing ancora preferiscano i propri profitti alla sincera preoccupazione per gli standard etici tanto sbandierati dalle multinazionali operanti su svariati campi. La prima evidente falla nel sistema di “controllo” è rappresentata dal fatto che le ispezioni sono pagate dalle stesse aziende che le commissionano. Va da se che le società di certificazione – mercato saldamente nelle mani di pochissimi operatori, come la francese Bureau Veritas, la tedesca TUV, la britannica Interteck ed anche l’italiana RINA – non saranno mai interessate a sollevare grossi polveroni che comporterebbero grosse perdite alle proprie clienti.

Non serve dilungarsi sulle terribili conseguenze che una verifica superficiale può comportare, perché sono sufficientemente eloquenti i fatti. Mi riferisco per esempio al caso seguito dal nostro Studio, che rappresenta le famiglie di 250 operai Pakistani che morirono in un incendio divampato nella fabbrica di abbigliamento Ali Enterprises a Karachi, intrappolati al primo piano del palazzo, dietro finestre con le sbarre di ferro, le uscite di emergenza chiuse a chiave, e senza estintori funzionanti. Nonostante le evidenti lacune del sistema di sicurezza, la pakistana azienda tessile aveva ricevuto poche settimane prima dell’incendio la certificazione relativa al modello gestionale che si propone di valorizzare e tutelare le condizioni di lavoro degli operai ricompresi nella sfera di controllo aziendale, certificazione senza la quale non avrebbe potuto esportare e commercializzare il proprio prodotto sul mercato occidentale…

Gli standard ESG tendono anche al miglioramento delle condizioni di sicurezza sul posto di lavoro e della vita degli operai, con l’obiettivo di eliminare eventi drammatici come quello appena descritto. Se tuttavia il sistema dovesse restare invariato, il rischio è davvero quello di un utilizzo distorto di questa certificazione, adottata furbescamente dalle grandi società a mero scopo di lucro, per rasserenare i propri clienti circa la bontà ed eticità del loro acquisto.

È quindi ora necessario un cambiamento, ed i passi da percorrere appaiono chiaramente.

Primo su tutti l’intervento dell’istituzione preposta, la Consob nel caso di specie, all’applicazione del già esistente regime sanzionatorio previsto in caso scorrettezze nel processo di accountability delle imprese. La normativa attuale infatti prevede, sanzioni da 25.000 a 150.000 euro che, stranamente, sino ad ora non sembra essere stato concretamente applicato.

In secondo luogo appare essenziale garantire l’indipendenza delle società di certificazione – di ogni ambito e genere – rispetto alle società ed imprese oggetto delle loro verifiche. Ciò potrebbe realizzarsi anche soltanto attraverso la delega ad un Ente terzo della distribuzione degli incarichi, a loro volta retribuiti da un fondo finanziato direttamente dalle imprese beneficiarie dei servizi di certificazione.

E sarà infine il legislatore a dover chiudere il cerchio con un drastico intervento normativo, slegandosi definitivamente da qualsiasi pressione, ponendo una volta per tutte in primo piano l’interesse ed il bene comune.

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