Smart working, un nuovo modo di “vedere” il lavoro

di Enrico Vallarolo

Lo smart working, oggi largamente imposto e/o quanto meno caldamente consigliato a tutela della salute pubblica, può inaugurare un nuovo rapporto tra lavoratori e datori.

Come è noto, l’evoluzione dell’epidemia da COVID-19 ha richiesto vari interventi d’emergenza anche in ambito giuslavoristico, al fine di contrastarne la diffusione e permettere la continuità delle attività lavorative interessate dai provvedimenti di lockdown.

Anche l’ultimo DPCM del 20/04/2020, all’art. 1 – rubricato “misure urgenti di contenimento del contagio sull’intero territorio nazionale” – lettera g) – prevede per i datori di lavoro privati la possibilità di applicare a ogni rapporto di lavoro subordinato la modalità di lavoro agile disciplinata dagli articoli da 18 a 23 della Legge 22 maggio 2017, n. 81.

I provvedimenti adottati in materia di emergenza sanitaria da Covid-19 hanno, dapprima, raccomandato e, poi, imposto ad aziende e studi professionali l’attuazione di modalità di lavoro agile per tutte le attività che possono essere svolte presso il proprio domicilio o a distanza (art. 1 n. 7 lett. a) DPCM 11 marzo 2020 e art. 1 comma 1 lett. c) DPCM 22 marzo 2020).

L’istituto in questione è nato al fine di incrementare la competitività ed agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro (usufruendo anche di diversi incentivi fiscali), ma tale scopo pratico è stato, oggi, superato dalla necessità di contemperare, da un lato, la prosecuzione delle attività lavorativa e, dall’altro, il rispetto delle misure di contenimento della diffusione del virus.

A seguito della c.d. “fase 2”, abbiamo infatti assistito al frequente ricorso a questa particolare modalità di lavoro, finora poco conosciuta ed utilizzata, eccezion fatta per una ristretta fetta del mercato di cui fanno parte aziende più strutturate, già dotate di apparati appositamente predisposti, con applicativi per la fruizione remota e dispositivi adeguati.

Molti lavoratori sono stati costretti o invitati a cambiare ufficio, “traslocando” nelle proprie case, con i conseguenti ed inevitabili tentativi per adattarsi e con qualche difficoltà nel gestire la tecnologia (dovendo a volte anche prestarla ai figli per la scuola a distanza).

Ma a livello contrattuale cosa cambia? Come fare per i costi energetici che aumentano per le famiglie? Chi deve pagare la rete internet per la connessione da remoto?

La Legge n. 81 del 2017, recante “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, ha messo nero su bianco gli ambiti di applicazione del cd. lavoro agile e le garanzie che lo caratterizzano, come stesso stipendio (art. 20), parità contrattuale, tutela per infortuni e malattie (art. 23).

Al lavoratore è riconosciuto il medesimo trattamento retributivo stabilito dal contratto collettivo applicabile, anche se la retribuzione non viene più modulata sulla base dell’orario ma dell’obiettivo prefissato dal datore di lavoro.

È il datore di lavoro (quale responsabile della salute e della sicurezza dei lavoratori) a rispondere del buon funzionamento degli strumenti tecnologici utilizzati dal lavoratore (art. 18 comma 2 Legge 81/2017).

Il datore di lavoro, quindi, dovrà ad esempio assicurarsi che il software di sicurezza utilizzato sia aggiornato e che la rete aziendale sia in grado di sostenere un elevato numero di collegamenti simultanei, per poter operare in videoconferenza sia con i clienti che con i colleghi.

I canali dovranno essere cifrati e accessibili solo con password e sistemi di autenticazione, per garantire la privacy dei dati scambiati in rete.

I computer utilizzati dai lavoratori per l’accesso da remoto dovranno, di preferenza, essere usati solamente per lo smart working, con applicativi antivirus e antimalware sempre aggiornati e la connessione alla rete domestica dovrà essere sicura.

Inoltre, è opportuno che la prestazione lavorativa rispetti, in ogni caso, i principi giuslavoristici: in particolare, è vivamente consigliabile l’adozione di un piano condiviso che consenta al lavoratore la pianificazione del proprio lavoro, così da evitare il rischio che lo smart worker diventi sostanzialmente “schiavo” della connessione permanente (per questo, diverse grosse aziende stanno discutendo sull’introduzione del cd. “diritto alla disconnessione”).

Parimenti, è raccomandabile una modalità concordata per la rendicontazione dell’attività svolta, anche nel rispetto dei principi che vietano il controllo a distanza del lavoratore.

Il sopra menzionato DPCM del 20/04/2020, visto l’attuale stato di emergenza, ha invitato il ricorso allo smart working anche in assenza di accordi individuali (prescritti dalla Legge), richiedendo esclusivamente che sia predisposta una autocertificazione.

Stante quanto sopra illustrato, è possibile affermare che lo smart working altro non è che una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato. Conseguentemente, il soggetto in smart working è a tutti gli effetti un lavoratore con tutto ciò che ne deriva.

Se lo smart working in qualche modo rappresenta il futuro di una buona parte del mondo del lavoro, è necessario però stabilire nuovi criteri per la sua regolamentazione: molte aziende, negli ultimi mesi, hanno potuto scoprire che la produttività non risente del lavoro a distanza e restare con gli uffici chiusi può generare risparmi non indifferenti.

Tutte le spese, dall’elettricità alla connessione Internet, sono a carico del lavoratore, senza contare la spinosa questione della reperibilità.

Ma chi rimborsa il lavoratore delle spese sostenute in smart working?

In Italia non vi sono previsioni al riguardo.

Dalla Svizzera, però, è giunta una sentenza (resa a Zurigo) che potrebbe fare da “pilota” anche in altri paesi europei, aprendo forse un dibattito che, complice appunto la pandemia di Coronavirus in atto, dovrà essere affrontato anche dall’Unione Europea.

Nello specifico, un’azienda elvetica è stata obbligata dal Tribunale a pagare un extra mensile a tutti i lavoratori, per contribuire in parte all’affitto e ad altre spese (www.csi.ch/news/svizzera), a fronte della richiesta di un’impiegata di vedersi riconosciute le spese derivanti dall’avere destinato a ufficio una parte della propria abitazione, non potendo disporre – nel caso specifico perché non c’era, ma oggi è possibile “girare” tale richiesta anche per chi non ha potuto usufruirne per motivi legati all’emergenza sanitaria – di una propria postazione nella sede della società.

L’azienda, in un primo tempo, aveva respinto la richiesta dell’impiegata, la quale si era appellata al Tribunale federale che, alla fine del dibattimento, in accoglimento della domanda ha stabilito un indennizzo di 150 franchi svizzeri mensili per l’attività svolta da casa: somma che, secondo la sentenza – deve coprire sia l’allestimento di una postazione di lavoro, sia le spese per l’utilizzo di Internet e parte dell’energia elettrica. Ma anche delle spese di affitto dell’alloggio, in quanto l’impiegata aveva dovuto ridurre il suo spazio “privato” per far posto alla postazione di lavoro.

La sentenza, al di là del caso specifico svizzero, pare destinata a riaprire il dibattito sui problemi riguardanti le nuove forme di lavoro generate sia dall’emergenza Covid 19, sia dalla trasformazione digitale delle aziende.

Migliaia di dipendenti sono stati invitati a trasformare la propria casa in un ufficio, assumendone – di fatto – una parte dei costi: ma la sentenza svizzera conferma che questi costi non possono essere a carico interamente del lavoratore, anche se questi ha ricevuto dal proprio datore di lavoro uno strumento (computer, tablet, cellulare, etc.) per svolgere l’attività in remoto e in smart working.

In pratica, il Tribunale federale ha censurato il fatto che gli oneri di produzione vengano trasferiti sul dipendente stesso. La decisione dei giudici ha anche individuato quali oneri non possono essere a carico del lavoratore, oltre allo strumento di lavoro: affitto della casa (parzialmente), consumi energetici, connessione Internet.

Il provvedimento ha anche effetto retroattivo, ma vale solo nel caso in cui il lavoratore sia stato costretto a lavorare in smart working contro la propria volontà e non nel caso in cui il lavoro da remoto sia frutto di un accordo tra le parti.

Quali possono essere, poi, le ulteriori garanzie a favore del lavoratore in smart working?

Dubbi possono sorgere, per esempio, in relazione all’erogazione dei buoni pasto.

Va preliminarmente detto che il buono pasto non è obbligatorio e viene erogato ai lavoratori che non hanno a disposizione una mensa aziendale. Si tratta, in altre parole, di un beneficio accessorio (o fringe benefit), così come lo sono le auto e i telefoni aziendali.

In linea di massima, ogni azienda o amministrazione decide autonomamente se concedere i buoni pasto in una giornata di smart working: alcuni lo fanno, altri no.

Nel primo caso, le aziende che garantiscono i buoni pasto in regime di lavoro agile lo fanno per un semplice principio: lo smart working non vuol dire solamente lavorare da casa. Un dipendente, in una giornata di lavoro agile, può recarsi in un coworking, oppure lavorare presso una sede distaccata dell’azienda. Perciò, in questi casi, il lavoratore ha comunque bisogno di mangiare fuori casa.

Nel secondo caso, invece, molte aziende durante le giornate di smart working non erogano il buono pasto né permettono ai dipendenti di usufruire del servizio mensa. Questo perché il beneficio del buono pasto viene equiparato ad altri trattamenti compensativi, che però non incidono direttamente sul “trattamento economico” del lavoratore. In questi casi, si imputa la mancata erogazione del beneficio al fatto che il dipendente lavora da casa e quindi non avrebbe necessità di utilizzare un buono pasto.

Nell’ambito delle agevolazioni occorre poi specificare che i lavoratori in smart working, così come i lavoratori in trasferta, non hanno diritto di accedere al “premio di 100 euro” previsto dall’art. 63 del D.L. n. 18/2020 (cd. “Decreto Cura Italia”). Infatti, poiché la prestazione non è stata eseguito nella sede di lavoro bensì a distanza, ossia non negli ordinari luoghi in cui tradizionalmente viene prestata l’attività lavorativa, il premio non è dovuto da parte del datore di lavoro.

La ratio della norma vuole che siano premiati solo coloro che abbiano prestato l’attività lavorativa all’interno dei locali aziendali, esponendosi maggiormente al rischio di contagio.

L’art. 90 del “Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) stabilisce che fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19 i genitori lavoratori dipendenti del settore privato che hanno almeno un figlio minore di anni 14 – a condizione che nel nucleo  familiare non vi sia altro genitore beneficiario di strumenti di sostegno al reddito in caso di sospensione o cessazione dell’attività lavorativa o che non vi sia genitore non lavoratore – hanno diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile anche in assenza degli accordi individuali.

Gli smart worker, al pari dei lavoratori dipendenti che svolgono la prestazione nei locali aziendali, hanno diritto di accedere ai congedi parentali Covid-19, per l’anno 2020, a decorrere dal 5 marzo e sino al 31 luglio 2020. Essi potranno essere goduti:

  • dai genitori lavoratori dipendenti del settore privato;
  • per i figli di età non superiore ai 12 anni (fatte salve le disposizioni in presenza di figli con disabilità);
  • per un periodo continuativo o frazionato comunque non superiore a 30 giorni.

È riconosciuta un’indennità pari al 50% della retribuzione.

Il bonus baby-sitting, invece, che passa da 600 euro a 1.200 euro, potrà essere riconosciuto, oltre che per l’acquisto di servizi di baby-sitting, anche per l’iscrizione ai servizi integrativi per l’infanzia, ai centri estivi, ai servizi socio educativi territoriali, ai centri con funzione educativa e ricreativa e ai servizi integrativi o innovativi per la prima infanzia.

Il lavoro agile sarà dunque la direzione verso cui si muoveranno le aziende, quanto meno per il periodo di permanenza dello stato di emergenza: per alcune realtà, forse, potrà essere una soluzione definitiva, imponendosi come nuovo canone.

Ciò che è certo è che la transizione pare iniziata.

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