Non è necessario ai fini della legittimità del licenziamento che le molestie abbiano procurato “significativi effetti dannosi per l’organizzazione aziendale” né che il licenziamento sia stato preceduto da precedenti sanzioni di minore gravità per analoghi comportamenti precedenti
Cass. civ., sez. lav., ord., 22 maggio 2025, n. 13748 Presidente Leone – Relatore Amirante
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In un’azienda, un lavoratore viene fatto oggetto, in tre diverse occasioni, da parte di una collega, di comunicazioni verbali ed attenzioni a sfondo sessuale.
A fronte di tali episodi, l’azienda opta per la soluzione più drastica, cioè il licenziamento per giusta causa della lavoratrice. Tale provvedimento è ritenuto legittimo in Tribunale, poiché alla lavoratrice sono state addebitate «plurime condotte riconducibili a tre nuclei: l’aver proferito in più occasioni, ed in maniera continuativa, frasi a contenuto sessuale e manifestato attenzioni indesiderate all’indirizzo di un altro lavoratore e nell’interazione lavorativa con quest’ultimo, nel periodo novembre-dicembre 2022; aver proferito frasi a contenuto sessuale indirizzate anche ad altro lavoratore, a metà febbraio 2023; aver svolto apprezzamenti denigratori ed offensivi nei confronti di un superiore gerarchico».
Per i giudici di primo grado, a fronte dell’accertato addebito relativo alle molestie sessuali ai danni di un collega, «i fatti contestati alla lavoratrice sono senz’altro idonei, anche da soli, a determinare il venir meno del rapporto fiduciario, ponendosi il comportamento della donna nei confronti del collega in grave contrasto anche con il “Codice di condotta” della società e con le regole del vivere civile, anche tendo conto del fatto che, Codice Civile alla mano, il datore di lavoro è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure necessarie a tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale dei dipendenti». Legittimo, quindi, e proporzionato alle condotte tenute dalla lavoratrice, il licenziamento.
Di parere opposto, invece, i giudici d’appello, i quali sanciscono, a fronte dei fatti accertati, l’illegittimità del licenziamento e, vista la risoluzione del rapporto di lavoro, condannano la società a pagare alla oramai ex dipendente una indennità pari a quasi 23mila euro.
Secondo i giudici d’appello, «il datore di lavoro, in considerazione della mancanza di procedimenti disciplinari precedenti a carico della dipendente e di significativi effetti dannosi per l’organizzazione aziendale, avrebbe ben potuto (e dovuto) graduare la risposta disciplinare, adottando sanzioni di maggiore e progressiva gravità, prima di giungere al licenziamento in tronco».
A impugnare la decisione d’appello è ovviamente la società, che ribadisce la correttezza del proprio operato e sottolinea la gravità dei comportamenti tenuti in azienda dalla lavoratrice. Ciò alla luce dei valori radicati nella coscienza generale, dei principi e delle norme dettate in materia di tutela dalle molestie sessuali e dalle discriminazioni sul luogo di lavoro e, infine, dei principi che hanno ispirato il “Codice della condotta” adottato dalla società. Codice di condotta in cui viene chiarito che «l’azienda mantiene relazioni basate su rispetto e fiducia reciproci e si sforza di creare un ambiente di lavoro che non lasci spazio a discriminazioni, molestie (sessuali o morali), intimidazioni o sessismo».
L’azienda pone inoltre in rilievo «l’importanza attribuita dalla società al tema della parità di genere, del rispetto della persona, della prevenzione e repressione delle molestie sessuali e della tutela dei propri dipendenti da tali comportamenti».
A fronte delle obiezioni sollevate dalla società datrice di lavoro, per i magistrati di Cassazione non è condivisibile la valutazione compiuta in appello e quindi deve essere statuita la legittimità del licenziamento per giusta causa adottato nei confronti della lavoratrice. Inequivocabili, difatti, i comportamenti da lei tenuti e riportati espressamente in una denuncia alla società fatta dal lavoratore vittima delle molestie sessuali.
Nello specifico, l’uomo ha riferito di essere stato vittima di molestie sessuali sul luogo di lavoro da parte della lavoratrice, riportando due specifici episodi, avvenuti nell’arco di due mesi – e confermati da alcuni testimoni –, e di essere stato perciò obbligato a cercare di limitare qualsivoglia contatto con la donna, con conseguenti inefficienze e rallentamenti del processo produttivo aziendale.
Per i magistrati di Cassazione il quadro pare chiarissimo ed erronea la sentenza d’appello, caratterizzata da «una non corretta individuazione e applicazione del parametro normativo e delle relative specificazioni inerenti alla sussistenza della giusta causa e la proporzionalità della sanzione».
In sostanza, «i giudici d’appello non hanno, in primo luogo, in alcun modo considerato le modalità oggettive e soggettive con le quali la condotta è stata posta in essere, né che avesse inciso sulle dinamiche lavorative. Nemmeno è stata considerata la circostanza, assai rilevante, che i comportamenti di molestia sessuale nei confronti del lavoratore sono stati posti in essere dalla donna alla presenza di altri colleghi di lavoro.
In secondo luogo, non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento la valutazione operata in appello che ha ricondotto la condotta della donna a mero comportamento rilevante sul piano disciplinare, considerando, ai fini del giudizio di proporzionalità, esclusivamente l’assenza di precedenti disciplinari e di significativi effetti dannosi per l’organizzazione aziendale, senza porre a raffronto tali elementi con valori ben più pregnanti, “ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento”.
Per meglio inquadrare la questione, i magistrati di Cassazione compiono un ulteriore ragionamento: «costituisce innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni la acquisizione della consapevolezza del fatto che qualunque intrusione nella sfera intima e assolutamente riservata della persona, effettuata peraltro con modalità insistenti e persistenti e senza curarsi della presenza di terze persone, deve essere valutata tenendo conto della centralità che nel disegno della Carta Costituzionale assumono i diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento della pari dignità sociale, senza distinzione di sesso, il pieno sviluppo della persona umana, il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell’individuo, oggetto di particolare tutela in tutte le sue forme ed applicazioni» e «tale generale impianto di tutela ha trovato puntuale specificazione nell’ordinamento attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie in vario modo intese ad impedire o a reprimere forme di discriminazione legate al sesso». Il riferimento è, nello specifico, al “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”, secondo cui «sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». E, non a caso, «i datori di lavoro sono tenuti ad assicurare condizioni di lavoro tali da garantire l’integrità fisica e morale e la dignità dei lavoratori, anche concordando con le organizzazioni sindacali le iniziative, di natura informativa e formativa, più opportune al fine di prevenire il fenomeno delle molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Le imprese, i sindacati, i datori di lavoro e i lavoratori e le lavoratrici si impegnano ad assicurare il mantenimento nei luoghi di lavoro di un ambiente di lavoro in cui sia rispettata la dignità di ognuno e siano favorite le relazioni interpersonali, basate su princìpi di eguaglianza e di reciproca correttezza».
In sostanza, è palese «la volontà del legislatore, da un lato, di garantire una protezione specifica e differenziata – attraverso il meccanismo dell’assimilazione alla fattispecie della discriminazione – alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso, e, dall’altro, di rafforzare gli obblighi di tutela posti a carico dei datori di lavoro rispetto a comportamenti dei propri dipendenti che si pongano in contrasto con tali valori fondamentali».
Rilevante poi anche il riferimento al contratto nazionale, secondo cui «le parti concordano sull’opportunità che il rapporto di lavoro si svolga in un clima aziendale idoneo allo svolgimento dell’attività» e «a tal fine dovrà essere assicurato il rispetto della dignità della persona in ogni suo aspetto, compreso quanto attiene alla condizione sessuale, e dovrà essere prevenuto ogni comportamento improprio, compiuto attraverso atti, parole, gesti, scritti che arrechino offesa alla personalità e all’integrità psico-fisica della lavoratrice e del lavoratore. In particolare, saranno evitati comportamenti discriminatori che determinino una situazione di disagio della persona cui sono rivolti, anche con riferimento alle conseguenze sulle condizioni di lavoro». Inoltre, «le molestie sessuali sul luogo di lavoro, incidendo su salute e serenità (anche professionale) del lavoratore, comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro».
In conclusione, secondo i magistrati di Cassazione, «deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che abbia molestato sessualmente un collega sul luogo di lavoro».
Cass. civ., sez. lav., ord., 22 maggio 2025, n. 13748.