di Alessandra Torreri e Angelica Marchese
In materia di risarcimento del danno derivante da sinistro con esito tristemente mortale, allorquando si devono individuare coloro i quali hanno titolo ad ottenere il risarcimento del danno derivato dalla perdita di una persona cara, non di rado si tende a confondere due distinti gruppi di soggetti, rispettivamente gli “eredi” e “i prossimi congiunti” i quali, pur se parzialmente sovrapponibili, non risultano comunque perfettamente coincidenti.
Infatti, in caso di sinistro stradale mortale, il nostro sistema giuridico riconosce il diritto al risarcimento non solo agli eredi della vittima (e dunque figli e coniuge o, in loro assenza, genitori e/o fratelli e sorelle), bensì a tutti i “prossimi congiunti” del soggetto deceduto nel sinistro (detti anche “vittime secondarie” o “aventi diritto”).
Tale espressione ricomprende certamente i componenti della famiglia nucleare del defunto – quali il coniuge, i figli, i genitori, i fratelli, le sorelle -, ma per ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, il solo legame di sangue con la vittima non è sufficiente: è necessario provare una “comunione di affetti”, ovvero dimostrare in concreto la sussistenza di un rapporto affettivo solido, una «relazione abituale e intensa» tanto da determinare lo sconforto nel superstite.
In passato veniva inoltre richiesto il requisito della convivenza, ormai superato in favore della dimostrazione di un legame affettivo saldo e stabile. Esempio concreto di tale evoluzione giurisprudenziale è il caso del rapporto intercorrente tra nipoti e nonni che, anche se non conviventi, sono legati da un vincolo affettivo che risponde ai criteri di cui sopra, dal momento che l’ascendente resta sempre una figura di riferimento, vincolo che però dovrà essere dimostrato in causa, eventualmente anche a mezzo di testimoni.
Tant’è vero che ad oggi anche altri soggetti possono richiedere il risarcimento dei danni da sinistro mortale (zii, cognati e perfino parenti meno prossimi), laddove però siano in condizione di documentare una particolare intensità del rapporto affettivo con il defunto.
Discorso a parte merita la risarcibilità del danno patito dal convivente more uxorio, per anni considerato non legittimato a richiedere il risarcimento per la perdita del proprio partner.
Su tale fronte, anche grazie da una parte al costante lavoro di avvocati che hanno contrastato la forte ingiustizia subita dal convivente per non essere incluso tra le c.d. “vittime secondarie”, e dall’altra ad una Giurisprudenza sempre più attenta alla tutela delle situazioni sostanziali, ormai da qualche anno vengono pacificamente riconosciuti i diritti risarcitori anche al/la compagno/a del defunto, purché emergano in maniera inconfutabile il rapporto di “familiarità” e comunione di vita fra i partner – caratterizzato da reciproca assistenza materiale e morale –, e l’eventuale consuetudine del defunto di contribuire regolarmente al bilancio comune
In proposito, la Suprema Corte ha recentemente chiarito che la convivenza more uxorio prescinde dal mero requisito anagrafico, consistendo in un “legame affettivo stabile e duraturo, in virtù del quale [i partners] abbiano spontaneamente e volontariamente assunto reciproci impegni di assistenza morale e materiale” (Cass. Civ.; Sez. III, 13.04.2018 n. 9178).
Ad ogni modo, la legge sulle Unioni Civili e Convivenze di Fatto n. 76/2016 entrata in vigore lo scorso giugno dovrebbe aver eliminato qualunque margine di discrezionalità in proposito: ha infatti espressamente previsto – al comma 49 dell’art. 1 – la risarcibilità del danno da morte per illecito altrui in favore del partner superstite pur non unito civilmente.
Ma la Cassazione è andata oltre, riconoscendo il diritto al risarcimento del danno da perdita parentale a coloro che oltre a non essere conviventi, non hanno neppure un legame di sangue con la vittima.
È il caso dei fidanzati che magari hanno in progetto di sposarsi a breve. Naturalmente, per essere risarcito, il partner o il fidanzato del defunto deve provare non solo l’esistenza di un rapporto affettivo che lo legava alla vittima, ma anche una relazione stabile tra i due, continua nel tempo e non occasionale al momento del sinistro. Il fidanzamento, anche senza convivenza al momento dell’incidente, deve essere tuttavia finalizzato a formare una famiglia. Famiglia non necessariamente basata sul matrimonio, ma comunque indirizzata a una relazione stabile.
Quanto fin qui espresso vale esclusivamente in ambito civile, in quanto in sede penale, invece, gli “aventi diritto” sono codicisticamente individuati e si tratta di quei soggetti che possono prendere parte al procedimento penale ed eventualmente poi costituirsi parte civile, cioè avanzare richieste di risarcimento del danno avanti il Giudice Penale invece che avanti a quello Civile. A differenza del secondo, che è sempre tenuto a pronunciarsi su tutte le domande di danni avanzate, il Giudice Penale può limitarsi in caso di condanna ad indicare una somma in acconto (detta “provvisionale”) e rimandare poi i soggetti costituitisi parte civile avanti il Giudice Civile affinchè questo determini il corretto ammontare dei danni.
In relazione alla individuazione degli aventi diritto al risarcimento del danno, la persona che abbia sofferto la perdita di un parente in sede penale rischia di non essere un “avente diritto” e di non essere legittimato a prendere parte al processo, pur avendo con il defunto un forte legame: afferma infatti il codice di procedura penale all’articolo 90 che nel caso in cui la persona offesa sia deceduta in conseguenza di un reato (circostanza purtroppo non infrequente nei sinistri stradale e nei casi di responsabilità medica), tutte le facoltà ed i diritti previsti dalla legge in capo ad essa possono essere esercitati dai prossimi congiunti o da persona alla medesima legata da relazione affettiva e con essa stabilmente convivente. Questa ultima situazione richiede però un accertamento congruamente motivato in ordine alla stabilità del rapporto di convivenza in sede di processo.
In sede penale i “congiunti” vengono tradizionalmente individuati ex art. 74 c.p.p. negli eredi, questo significa che nel caso di una persona sposata essi sono il coniuge e, ove ne abbia, i figli, mentre nel caso di persona non coniugata sono i genitori, fratelli e sorelle. Questi soggetti, potendo esercitare tutti i diritti della persona offesa, hanno ad esempio diritto ad essere avvistati a mezzo notifica in sede di indagini preliminari nel caso in cui il Pubblico Ministero che svolge le indagini voglia disporre atti di indagine irripetibili, tra i quali a titolo di esempio l’autopsia.
Sebbene non possano esercitare gli stessi medesimi diritti della persona offesa, e pertanto non sono ad esempio destinatari delle notifiche a cura della Procura della Repubblica competente, tuttavia negli ultimi anni la giurisprudenza ha gradualmente esteso l’ambito del danno risarcibile in sede civile, con la conseguenza di ampliare le categorie dei soggetti legittimati a
costituirsi parte civile in sede penale, riconoscendo la legittimazione anche a soggetti precedentemente esclusi, quali ad esempio i nonni non conviventi. Tuttavia non vi è per questi ultimi soggetti – né si può parlare di – certezza di legittimazione poiché, in assenza di una precisa previsione codicistica, in ogni singolo processo il singolo Giudice rimane libero di determinarsi diversamente e di non ammettere la costituzione di parte civile. La conseguenza è che, a differenza di quanto accade in sede civile, i parenti non espressamente indicati dal codice non hanno la certezza di poter partecipare al processo penale e di richiedere in quella sede il risarcimento dei danni tutti patiti e corrono il rischio, per quanto modico, di vedersi esclusi dal procedimento.
Discorso diverso si deve, infine, fare per quanto concerne la posizione di figure che la giurisprudenza civile ammette quali titolari di diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale anche in assenza di convivenza e di legami di sangue con la vittima: non vi è tutela ad oggi per la posizione dei i fidanzati, ad esempio, i cui diritti potranno dunque essere fatti valere compiutamente solo in sede civile.
Per concludere la nostra breve riflessione, la posizione degli aventi diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale è senz’altro maggiormente tutelata in sede civile, difatti ritenuta la sede naturale ove agire in giudizio da tutti gli operatori del diritto. Peraltro non si può dimenticare come in sede civile vi sia sempre la possibilità di dimostrare il tipo e l’intensità del legame con la vittima al fine di provare la propria particolare posizione giuridica tale da giustificare una richiesta risarcitoria, mentre questo non vale in sede penale poiché queste circostanze non costituiscono l’oggetto dell’indagine istruttoria, con possibili negative conseguenze per i diritti di coloro che dovessero decidere di coltivare la richiesta di risarcimento del danno in quest’ultima sede piuttosto che avanti il Giudice Civile.
In ogni caso un legale esperto nella materia della responsabilità civile potrà consigliare e valutare di caso in caso le soluzioni più corrette per la tutela dei diritti che possono essere vantati dai singoli soggetti.