La crisi dei Giudici di Pace a Torino: una giustizia che sconfina nell’inciviltà

di Pierangelo Bordino

L’ufficio del Giudice di Pace di Torino rappresenta il simbolo di una crisi strutturale che colpisce l’intero sistema giudiziario italiano. Con oltre 24.000 fascicoli civili pendenti, una pianta organica che vede operativi appena 13 giudici su 134 previsti – distribuiti tra ruolo civile, penale e amministrativo – e prime udienze fissate al 2027 o oltre, siamo di fronte a ritardi che non solo negano il diritto alla giustizia, ma calpestano i principi fondamentali di un Paese che si definisce civile ed evoluto. La ragionevole durata del processo e la tempestività nell’accesso alla tutela giurisdizionale non sono meri formalismi, ma pilastri di uno Stato di diritto. Oggi, a Torino, questi diritti sono disattesi, lasciando cittadini e imprese in balia di un sistema che non riesce a garantire nemmeno le prestazioni essenziali​​.

Gli avvocati torinesi, attraverso l’Ordine di categoria, hanno denunciato con forza una situazione che non è più tollerabile, definendo il collasso dell’ufficio del Giudice di Pace come una “negazione della giustizia”. I numeri offrono uno spaccato allarmante: ogni giudice in servizio si è trovato a gestire mediamente 1.100 fascicoli nei primi sei mesi del 2024, una mole di lavoro insostenibile che compromette l’efficacia e la qualità delle decisioni. Per le cause più semplici, come i decreti ingiuntivi, fondamentali per il recupero crediti, l’attesa può superare i cinque mesi. Nei casi più complessi, come le controversie civili ordinarie, le prime udienze vengono fissate a tre o quattro anni dal deposito, paralizzando i diritti dei cittadini e le attività delle imprese​​.

Questa situazione, già drammatica, è destinata a peggiorare ulteriormente a causa delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116/2017, che entreranno pienamente in vigore da ottobre. L’aumento della competenza per valore, che porterà il limite a 30.000 euro e a 50.000 euro per controversie relative a danni da circolazione stradale, comporterà un ulteriore sovraccarico per gli uffici già al collasso.

Inoltre, entro il 2025, il Giudice di Pace assumerà competenze quasi esclusive in materia condominiale, oltre a questioni complesse come le servitù prediali, l’usucapione e l’enfiteusi. Si stima che il 30% delle cause attualmente gestite dai tribunali verrà trasferito ai giudici di pace, aggravando una situazione già insostenibile​​.

Coloro che ogni giorno frequentano le aule di giustizia di Torino vivono una frustrazione crescente, confrontandosi con un sistema incapace di garantire risposte rapide ed efficaci. I ritardi paralizzano non solo la giustizia civile, ma anche il corretto funzionamento dell’economia, con controversie che, se risolte tempestivamente, potrebbero evitare danni irreparabili a individui e aziende​.

Questa crisi non è solo un problema tecnico, ma una ferita al tessuto democratico e sociale del Paese.

I ritardi giudiziari violano i diritti fondamentali e compromettono la fiducia dei cittadini nello Stato e nei suoi meccanismi di tutela.

In questo contesto, il dibattito sulla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e pubblici ministeri appare quasi paradossale. Non si discute la rilevanza di una riforma di tale portata, che mira a garantire l’imparzialità dei giudici e una netta distinzione dei ruoli all’interno della magistratura. Tuttavia, è evidente che tali questioni, per quanto importanti, assumono un carattere “marginale” rispetto alla crisi sistemica che attanaglia la giustizia italiana.

Quando i cittadini attendono anni per una sentenza, ogni discussione su principi di alto profilo rischia di apparire lontana dalle loro reali necessità.

La separazione delle carriere potrebbe rappresentare una questione da affrontare in un secondo momento, quando i cittadini avranno riacquistato fiducia in una giustizia che sia prima di tutto veloce, efficace e accessibile. Perché parlare di indipendenza e imparzialità ha senso solo se prima la giustizia riesce ad esistere concretamente, nei tribunali e nelle vite delle persone.

Senza un intervento deciso e strutturale per risolvere problemi come la durata dei processi e la cronica carenza di risorse, il sistema non sarà in grado di garantire neppure la più basilare delle tutele.

Alla fine, la vera domanda è questa: può un Paese definirsi civile quando il suo sistema giudiziario si è allontanato così tanto dal servire i cittadini? Prima di guardare avanti e discutere grandi riforme, occorre fermarsi e risolvere le fondamenta. Solo allora potremo parlare di un sistema giudiziario degno di questo nome.

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