Big Pharma: profitto privato vs interesse Pubblico

di Tommaso Maria Giorgi

La proprietà industriale su prodotti vaccinali.

Il premio Nobel per la pace Mohammed Yunus, insieme ad altre personalità di alto profilo, si è fatto promotore di un’iniziativa globale per la liberazione dei brevetti sui vaccini, così da consentire la loro produzione nazionale su larga scala, in tempi certamente più rapidi, e garantire l’accesso agli stessi anche ai paesi in via di sviluppo.

La WTO (World Trade Organization) – che peraltro nel 2003 aveva approvato la Dichiarazione di Doha che prevede regimi derogatori per l’accesso dei paesi in via di sviluppo ai farmaci – ha però deciso di non accettare la deroga ai brevetti sui vaccini e così la produzione di questi resterà privata, nelle mani delle grandi multinazionali che non sono disposte a condividere il frutto delle loro ricerche, anche ora che fanno fatica a garantire i livelli di produzione necessari per soddisfare la grande richiesta dei Governi.

Gli interessi individuali ed economici di pochi sembrano quindi prevalere ancora una volta sull’interesse pubblico, nonostante l’interesse pubblico sia un diritto fondamentale come il diritto alla salute a tutela del quale tante restrizioni sono state imposte alle persone ed alle attività economiche.

Saranno quindi solo le Big Pharma a guadagnarci, ma quel che rende poco accettabile questa conclusione è che ciò avvenga grazie ai soldi pubblici ed in forza di contratti davvero poco accorti stipulati dalle autorità europee.

Se guardiamo unicamente all’UE – che solo un anno fa aveva definito i vaccini come “un bene pubblico”, guardandosi però bene dall’agire di conseguenza al momento opportuno con il Parlamento che ha votato contro la liberalizzazione degli stessi – sul mercato al momento sono presenti tre marchi che di fatto agiscono in un regime di cartello per i vaccini antiCovid: Moderna e Pfizer per gli anziani, Astrazeneca per i più giovani. E ciò, a dire il vero, in quasi tutti i paesi che hanno avuto accesso al vaccino.

Come detto, però, le grandi aziende farmaceutiche non riescono a stare dietro alla grande domanda dei Governi ed hanno dunque annunciato tagli alle forniture ai vari Paesi, in quanto si sarebbero accorte di non riuscire a garantire tramite i loro stabilimenti una produzione che sia in grado di soddisfare gli accordi che le stesse aziende hanno siglato con l’Unione.

Ed è qui che sorge spontanea la domanda: è giusto mantenere privato il brevetto di un farmaco che fatica ad essere prodotto e nonostante questa produzione sia possibile anche grazie ai finanziamenti pubblici?

La ricerca e lo sviluppo dei vaccini per il Covid sono, infatti, stati implementati con immensi investimenti pubblici, sia tramite fondi per la ricerca che tramite accordi di acquisto di dosi a sperimentazioni ancora in corso.

In altri termini molti paesi hanno, durante la sperimentazione, acquistato dosi a scatola chiusa scommettendo su determinati vaccini e quindi prendendosi il rischio imprenditoriale, distribuito pubblicamente su ciascun cittadino, alla stregua di aziende private.

Per quanto riguarda la sola UE, questa ha erogato durante la sperimentazione del siero antiCovid  Pfizer-Biontech 100 milioni per la ricerca, acquistandone poi, a sperimentazione ancora in corso e quindi assumendosi il rischio di investimento, 200 milioni di dosi dello stesso vaccino con ciò finanziando significativamente “a scatola chiusa” la relativa ricerca.. Ha poi acquistato 80 milioni di dosi di Moderna e speso circa 336 milioni di euro per ricerca e sviluppo e rifornimento di dosi, sempre a scatola chiusa, per le forniture di Astrazeneca.

Un buon amministratore pubblico, agendo come sostanziale committente, avrebbe quindi dovuto tutelare in modo più efficace i propri cittadini, prevedendo almeno l’obbligo per le case farmaceutiche di consentire -pur traendone un onesto profitto – la produzione su licenza in modo da affrontare le massive richieste la cui soddisfazione può consentire finalmente l’uscita dalla pandemia.

Moderna è invece l’unico dei tre marchi ad avere autorizzato l’utilizzo del suo brevetto anche se, in realtà, l’azienda americana si è riservata soltanto di non citare in giudizio le aziende che svilupperanno vaccini simili fino alla fine della pandemia: vale a dire che finita l’emergenza sembra quindi pronta a dare battaglia legale.

Alcuni hanno anche criticato la eventuale liberalizzazione dei brevetti sostenendo che non sarebbe comunque possibile produrre i vaccini su larga scala. In verità le strutture per produrre i vaccini, anche quelli a mRNA (Pfizer e Moderna), effettivamente più difficoltosi, ci sono anche in Italia.

Insomma, la liberalizzazione dei brevetti e la produzione dei vaccini su larga scala sarebbe possibile ed il loro utilizzo come bene pubblico, garantirebbe certamente l’uscita dall’emergenza pandemica in tempi assolutamente più rapidi.

Ma qualcuno preferisce i lockdown e dunque ciò non avverrà.

E non è la prima volta. Già verso la fine del 1997, infatti, il Sud Africa governato da Nelson Mandela era oppresso dall’AIDS ma non poteva certo permettersi l’acquisto dei farmaci antiretrovirali, troppo costosi e nelle mani delle grandi multinazionali che erano già “protette” dal TRIPs (Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), un accordo commerciale volto alla tutela della proprietà intellettuale firmato nel 1994 con il quale è stato proibito a tutti i membri del WTO di violare i brevetti registrati, accordo fortemente voluto dalle Big Pharma ed osteggiato da quelli in via di sviluppo.

Il governo sudafricano messo alle strette decise di varare il Medical Act del 12 dicembre 1997 con il quale ha sospeso la tutela della proprietà intellettuale sui farmaci antiretrovirali, consentendo così la produzione nazionale per salvare numerose vite. Solo una grandissima eco mediatica, con l’opinione pubblica a favore di Mandela, ha fatto infine desistere le grandi aziende farmaceutiche dalla prosecuzione delle azioni legali già intraprese che di fatto stavano bloccando l’applicazione della legge sudafricana. È per tale episodio che nel 2003 la WTO ha approvato la Dichiarazione di Doha, che abbiamo citato sopra e che ha l’obiettivo di facilitare l’accesso dei paesi in via di sviluppo ai farmaci più costosi, ma che evidentemente presenta ancora grandi lacune o quantomeno ha applicazioni troppo timide

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