Un tempo si diceva che un immobile “non mangia e non beve”, concetto chiaro per dire che il “mattone” era una sicurezza ed una stabilità per i patrimoni familiari, senza particolari oneri di gestione.
C’era quindi una certa soddisfazione nel fare accatastare un proprio immobile come “signorile”, tendenza che si è consolidata a seguito dell’entrata in vigore della legge sull’equo canone – legge 392/1978 – avendo tale normativa stabilito coefficienti più alti ai fini della determinazione del canone di locazione per quella categoria di immobili.
Era comprensibile allora il sogno di vivere in un attico nel centro città, in un castello o in una villa con ampio giardino e piscina, ma tali sogni si stanno ora appannando davanti agli svantaggi economici, soprattutto di natura fiscale, nel tempo pensati dal legislatore per “fare cassa” penalizzando la proprietà di immobili appartenenti alle categorie catastali A1 (abitazioni signorili), A8, abitazioni in villa e A9 (castelli).
Le normative fiscali successive hanno infatti reso molto svantaggiosa la situazione per i proprietari di immobili accatastati come “signorili”, per esempio chi possiede tali immobili è costretto a pagare l’IMU anche se detti immobili sono la loro abitazione di residenza, altrimenti esente IMU se non si trattasse di immobile di lusso.
Inoltre, chi acquista immobili appartenenti alle predette categorie catastali neppure potrà godere delle agevolazioni prima casa pur avendone, almeno sulla carta, i requisiti, dovendo invece pagare imposte di registro di importi spesso letteralmente esorbitanti, trattandosi di cespiti con rendite catastali elevate, alienate normalmente a prezzi importanti.
In più, come se non bastasse, nella malaugurata ipotesi in cui il proprietario di uno di tali immobili dovesse essere sottoposto ad una riscossione esattoriale, neppure potrebbe godere dei vantaggi introdotti nell’anno 2013 con il c.d. “decreto del fare”, che ha escluso la possibilità per l’agente della riscossione di dar corso all’espropriazione immobiliare sull’unico immobile di proprietà del contribuente, ad uso abitativo, in cui risiede anagraficamente, essendo espressamente esclusi dall’ambito di applicazione di tale normativa gli immobili accatastati come A1, A8 e A9.
Una situazione complessiva di pregiudizio che pesa sui proprietari, soprattutto quando diventano “venditori”, posto che i potenziali acquirenti si diradano a fronte dei pesanti oneri di gestione dell’immobile, ovvero formulano offerte che scontano la penalizzazione del bene oggetto della possibile compravendita.
Le caratteristiche che identificano un immobile come “abitazione di lusso” sono indicate in maniera analitica nel decreto del ministero dei lavori pubblici del 2 agosto 1969, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 218 del 27 agosto 1969, in cui si dice, a titolo esemplificativo, che devono essere considerate abitazioni di lusso, immobili unifamiliari con piscina di almeno 80 mq, case composte da alloggio padronale con superficie utile superiore a 200 mq con area scoperta, grande almeno sei volte quella scoperta ed abitazioni insistenti su aree di edilizia residenziale.
Vi è poi nel predetto decreto una tabella con svariati requisiti indicati e il decreto stabilisce che il possesso di almeno quattro di tali requisiti comporterebbe la qualificazione dell’immobile come abitazione di lusso e tali requisiti sono ad esempio la presenza di uno o più ascensori per scala, la presenza di ascensori di servizio, il rivestimento delle scale con materiali di particolare pregio, la presenza nello stabile di campi da tennis e piscina, quindi elementi relativi allo stabile, ma vi sono anche elementi relativi ai singoli appartamenti, come la presenza di soffitti, pavimenti, muri, infissi interni di particolare pregio.
Le disposizioni del predetto decreto non sono però strettamente vincolanti e la loro “fluidità” li rende aperti ad interpretazione e, come ben si può immaginare, l’interpretazione degli enti locali non sono certamente volte alla tutela del risparmio fiscale, accadendo invece spesso nella pratica che immobili privi delle caratteristiche di abitazioni signorili siano tuttavia qualificate come tali perché la categoria catastale A1 è quella prevalente dello stabile, ovvero perché per le motivazioni sopra richiamate nostro nonno ha accatastato come signorile negli ’70 che invece poteva essere accatastato in categoria A2.
Si sta quindi sviluppando un diffuso contenzioso tra proprietari che desiderano modificare l’accatastamento – passando per esempio da A1 ad A2 – e le Amministrazioni che cercano di opporsi per mantenere il flusso di imposte che gli immobili di lusso o signorili continuano a garantire.
La politica conservativa dei Comuni tende infatti a far sì che spesso le richieste di declassamento vengano disattese e sovente anche i regolamenti condominiali rendono più difficoltose le pratiche per il declassamento vietando il frazionamento delle unità immobiliari, impedendo così ai proprietari di ridurre la superficie degli immobili, privandoli così dei requisiti delle abitazioni di lusso e mettendosi nelle condizioni di ottenere la modifica della categoria catastale in A2.
Per ottenere il declassamento degli immobili da A1 ad A2 è necessario rivolgersi ad un professionista – geometra, architetto, ingegnere – il quale presenterà una pratica Docfa a tal fine, pratica che potrà contenere le indicazioni delle eventuali opere/variazioni eseguite, ovvero semplicemente l’indicazione della diversa categoria catastale, nella fattispecie A2.
L’Agenzia delle Entrate avrà un anno di tempo per l’eventuale – e assai frequente n.d.r. – rigetto della pratica, normalmente con un atto di classamento in rettifica, avverso il quale potrà essere proposto ricorso innanzi alla Corte di Giustizia Tributaria (già Commissione Tributaria).
Il termine di un anno sopra indicato, previsto dall’art. 1 c. 3 del DM 701/1994, non ha però neppure natura perentoria, come affermato anche dalla Corte di Cassazione con ordinanza n. 20823 del 6 settembre 2017, la quale in merito al potere di accertamento dell’Agenzia delle Entrate stabilisce che “la procedura DOCFA consente al proprietario dell’immobile di proporne la rendita in modo da accelerare formazione e aggiornamento del catasto, ma non comprime in alcun modo il potere di rettifica dell’ufficio”, con la conseguenza che quest’ultimo può esercitarlo anche oltre il termine annuale previsto dal comma 3 dell’articolo 1 del Dm 701/1994, che ha natura meramente ordinatoria.
Da quanto sopra esposto emerge chiaramente come vi siano ampi fronti di contenzioso, essendo piuttosto paradossale, tra le altre cose, che il proprietario che presenti una pratica per la variazione della categoria catastale debba attendere per un anno il responso da parte dell’Agenzia delle Entrate, magari avendo urgenza di alienare il proprio immobile e neppure dopo il decorso di tale periodo di tempo veda consolidato con sicurezza il riaccatastamento presentato.
Recentemente, durante il governo Draghi, è stata approvata una legge delega avente ad oggetto la riforma del Catasto, con l’indicazione dei principi che dovranno governare tale riforma, cha ha l’obiettivo di modernizzare e rendere più efficienti gli strumenti di individuazione e di controllo delle consistenze di terreni e fabbricati, fornendo così ai Comuni e all’Agenzia delle Entrate strumenti per facilitare ed accelerare l’individuazione degli immobili e dei terreni non correttamente censiti ed integrando le informazioni presenti al catasto.
L’obiettivo della delega al governo è quindi quello di facilitare e accelerare l’individuazione di cespiti immobiliari presenti sul territorio nazionale con riferimento ai quali la situazione di fatto non corrisponde a quella individuata nelle banche dati catastali: tali cespiti vengono esemplificativamente indicati in immobili non censiti, immobili abusivi, immobili censiti in maniera difforme dallo stato di fatto o che non rispettano la destinazione d’uso catastale loro attribuita e terreni edificabili accatastati come agricoli.
La legge delega indirizza il Governo a predisporre nuovi strumenti e modelli organizzativi che permettano a Comuni ed Agenzia delle Entrate di ottenere migliori e più efficaci sinergie per l’attività di controllo, attraverso integrazione e interoperabilità dei rispettivi sistemi informativi, in modo da conferire valorizzazioni agli immobili in linea con quelle di mercato.
Per ottenere un’attualizzazione dei valori e delle rendite degli immobili dovranno essere effettuate rilevazioni delle caratteristiche tecnico – fisiche degli immobili stessi, non presenti ad oggi negli archivi catastali, dovendo gli immobili censiti essere oggetto di stime puntuali.
La delega in questione dovrà essere attuata a decorrere dal 1° gennaio 2026 e si auspica che, a fronte dell’introduzione dei predetti e più efficaci sistemi di rilevazione e controllo, per quanto indicati nel testo della delega in maniera piuttosto generica, le attribuzioni di valori, rendite e categorie catastali degli immobili rispecchino con minima approssimazione il loro reale stato di fatto.
Nel frattempo, alla luce della normativa e dei regolamenti vigenti, rimane concreta la possibilità di ottenere il declassamento di un immobile in categoria “signorile – lusso” in A2, ma bisogna sapersi attrezzare per affrontare il prevedibile contenzioso avanti l’Amministrazione e, nel prevedibile caso di mancanza di accordo, avanti la Corte di Giustizia Tributaria.