DDL Milano e le carenze fisiologiche della normativa urbanistica nazionale

di Gregorio Torchia

Nel quadro dell’attuale discussione normativa sulla rigenerazione urbana, assume rilievo il cosiddetto disegno di legge “Salva Milano”, concepito per sbloccare numerosi interventi edilizi nel capoluogo lombardo, rimasti fermi a causa di una prassi applicativa estensiva della normativa urbanistica e edilizia vigente, che è risultata nella nota indagine avviata dalla procura della repubblica. Il ddl, nelle intenzioni, avrebbe dovuto fornire un’interpretazione autentica dell’art. 41 quinquies l. 1150/1942, semplificando le procedure e chiarendo i margini di intervento in assenza di nuovi strumenti urbanistici attuativi.

Diversi giuristi e urbanisti hanno segnalato il rischio che la proposta si traducesse in una deregolamentazione sostanziale, con effetti potenzialmente distorsivi sull’equilibrio tra edificabilità privata e tutela della città pubblica, oltreché “assolutori” dei dirigenti indagati. Tra i principali punti oggetto di dibattito: (i) Eliminazione dell’obbligo di piani particolareggiati per gli ambiti già edificati e urbanizzati; (ii) Ridefinizione estensiva della ristrutturazione edilizia, includendo demolizione e ricostruzione con variazioni rilevanti di sagoma, prospetti e sedime; (iii) Semplificazione procedurale, con possibilità di avviare gli interventi tramite semplice SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività).

Volendo tralasciare la vicenda specifica, il testo attualmente all’esame della Commissione parlamentare del Senato riporta all’attenzione del dibattito pubblico e giuridico una questione rimasta irrisolta da decenni: la necessità di una riforma organica della legislazione urbanistica post-regioni. Dopo l’ultima legge organica in materia, la Legge n. 10 del 1977, gli interventi normativi che si sono succeduti hanno seguito una logica frammentata, intervenendo più sull’attività edilizia  che sulla pianificazione urbanistica.

Questa inversione di priorità – evidente nella prevalenza di misure di incentivazione come i premi di volumetria, la delocalizzazione, o la modifica della destinazione d’uso – ha finito per compromettere l’approccio sistemico necessario per affrontare il tema della riqualificazione della città costruita, superata ormai la stagione dei piani di espansione cui si ispirava la legge del 1942.

L’assenza di una definizione normativa compiuta e di una regolazione preventiva della riqualificazione urbana è stata colmata attraverso il riferimento all’articolo 3, lett. d) del Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001), modificato più volte dal 2013 in poi. Tale norma ha finito per identificare la rigenerazione urbana con la ristrutturazione edilizia in senso lato, portando all’esplosione di interventi edilizi di ampia portata anche in contesti già ampiamente urbanizzati, in alcuni casi addirittura in deroga al piano urbanistico.

L’origine di questa impostazione risale al D.L. 70/2011, convertito nella Legge n. 106/2011, che ha legittimato – in alcuni casi – interventi edilizi radicali (demolizione, ricostruzione, variazioni volumetriche e di destinazione d’uso) nelle aree urbane consolidate, senza una pianificazione attuativa preventiva, né un’adeguata valutazione dell’impatto sugli standard urbanistici.

Gli effetti di questa linea sono oggi sotto gli occhi di tutti: interventi edilizi isolati e scollegati dal contesto circostante, come alcuni recenti casi milanesi, che pongono evidenti problemi di compatibilità urbanistica e di rispetto della cosiddetta “città pubblica”.

È vero che la legge del 2011 demandava alle Regioni la definizione dei criteri con cui i Comuni potevano individuare aree da riqualificare, sulla base di una ricognizione puntuale degli edifici e dei tessuti urbani interessati. Tuttavia, la concreta attuazione di tali disposizioni si è spesso tradotta in un conferimento eccessivo di discrezionalità ai Comuni, senza che fosse assicurato un quadro pianificatorio coerente.

Il cuore della questione, oggi come allora, risiede nel rapporto tra edificabilità delle aree e garanzia degli standard urbanistici e edilizi introdotti con la legge ponte del 1967 (L. 765/1967). L’art. 41-quinquies della legge urbanistica – che imponeva la necessità di un piano attuativo convenzionato per la trasformazione intensiva di aree di espansione – si fondava su un principio fondamentale: la programmazione equilibrata del territorio e la dotazione di infrastrutture pubbliche adeguate.

Oggi, con il focus spostato sulla rigenerazione urbana della città costruita, quel principio non solo resta valido, ma assume una rilevanza ancor maggiore. L’obbligo di un piano attuativo non può essere eluso quando si interviene in maniera rilevante su tessuti già urbanizzati, pena il rischio di compromettere la qualità della vita e i diritti dei nuovi e vecchi residenti.

Il testo oggi in discussione sembra eludere tale obbligo, sia per i singoli lotti che per interi ambiti edificati, subordinando l’obbligatorietà del piano attuativo a valutazioni discrezionali. Tuttavia, il rispetto degli standard urbanistici, che oggi costituiscono Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m) della Costituzione, non può essere demandato a valutazioni estemporanee o a meccanismi come la monetizzazione. Infatti, in molte città italiane – si pensi al PGT del Comune di Milano – si è fatto ampio ricorso alla monetizzazione come strumento per compensare la mancata realizzazione diretta di standard urbanistici. Tuttavia, questa soluzione è strutturalmente insoddisfacente, sia perché spesso le aree acquisite con le somme versate sono lontane dai luoghi di intervento, sia perché non esiste alcuna garanzia che le opere pubbliche vengano effettivamente realizzate. Peraltro, la monetizzazione non trova fondamento in alcuna norma statale, ma è stata introdotta da alcune leggi regionali. Per queste ragioni, si ritiene che tale istituto debba essere ammesso solo in casi eccezionali, e mai in sostituzione di un piano attuativo convenzionato nei casi in cui la trasformazione incida in modo rilevante sul territorio, a prescindere dalla riconducibilità dell’intervento all’art. 41-quinquies.

Si ritiene che una simile impostazione normativa, se generalizzata, rischierebbe di determinare uno stravolgimento dell’intera disciplina della pianificazione urbanistica e di esporre le disposizioni a un serio rischio di incostituzionalità, aggravando un problema risolvibile solo tramite una revisione complessiva della normativa.

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