Se si può sostenere, dati alla mano, che nell’ultimo anno circa un milione di cause sono nate da liti condominiali deve altresì essere precisato che nella maggior parte di esse c’era, come oggetto principale, il cibo.
Se siete amanti della cucina ed amate cucinare con spezie ed odori forti dovete stare comunque attenti perché in taluni casi potrebbe essere addirittura un reato e potrete essere citati per danni dai vicini di casa.
Vi sono già differenti casi di famiglie condannate a causa di una cucina ritenuta troppo maleodorante o invadente. Per evitare di incorrere in una situazione del genere, si possono seguire delle semplici accortezze, che miglioreranno certamente la vita di tutti i proprietari.
Prima di tutto, bisogna evitare di cucinare durante le ore notturne. Spesso, se si rincasa tardi dal lavoro, si ha l’abitudine di cucinare qualcosa prima di andare a dormire, senza badare all’ora. Tuttavia, potrebbe essere spiacevole per i propri vicini di casa svegliarsi durante le ore notturne avvertendo un forte odore di fritto o di cibo. L’ideale, quindi, è quello di preparare dei pasti veloci e che non provochino degli odori molesti.
Comunque sia è opportuno precisare che chi intraprende un’azione legale volta alla dichiarazione d’intollerabilità di esalazioni (odori) deve essere in grado di portare davanti al giudice adito degli elementi che dimostrino tale intollerabilità. Si deve trattare di un pregiudizio concreto e non solo teorico.
La Cassazione, seguendo delle pronunce di merito, ha chiaramente confermato la condanna di una famiglia per molestie olfattive e la sentenza, la n. 14467/2017 della Sezione III penale della Corte di Cassazione, ha avuto un certo eco perché ha sanzionato penalmente le emissioni di puzza di fritto che un condomino era stato accusato di provocare quotidianamente nel palazzo in cui abita.
Si tratterebbe, secondo la Corte, di una fattispecie da inquadrare nella contravvenzione di cui all’art. 674 del Codice penale, che punisce con l’arresto fino ad un mese o con l’ammenda fino ad € 206 “Chiunque getta o versa, in un luogo di pubblico transito o in un luogo privato ma di comune o di altrui uso, cose atte a offendere o imbrattare o molestare persone, ovvero, nei casi non consentiti dalla legge, provoca emissioni di gas, di vapori o di fumo, atti a cagionare tali effetti”. Il produrre odori molesti in condominio sarebbe quindi “getto pericoloso di cose”, per riprendere la rubrica dell’articolo appena citato, e costituirebbe una vera e propria “molestia olfattiva”, secondo la Cassazione.
Indubbiamente, inquadrare all’interno di un reato le immissioni sgradevoli di odori in condominio può avere un certo effetto deterrente: la possibilità di ricorrere alla denuncia penale sarà, dunque, un’arma importante per i condomini esasperati, da utilizzare per rafforzare le proprie richieste di cessazione di certe condotte.
Se poi, nel caso concreto, le esalazioni non integrassero un reato, soccorrono comunque i rimedi previsti dal diritto civile, finalizzati all’inibitoria dei comportamenti dannosi e ad ottenere un adeguato risarcimento del danno.
Dunque e se gli odori sono intollerabili, i vicini o – come capita più spesso – i condomini, potranno agire in giudizio. La richiesta principale sarà la cessazione dei comportamenti che provocano le immissioni (c.d. inibitoria), accompagnata dal risarcimento del danno (anche non patrimoniale), nel caso in cui esse abbiano avuto un impatto negativo sulle proprie condizioni di vita (si pensi, ad esempio, ai rumori che non fanno dormire la notte o ad odori che pregiudicano la piena libertà nelle abitudini quotidiane). Legittimato ad agire in giudizio è il proprietario dell’immobile che subisce le immissioni altrui, ma in virtù dell’interpretazione dell’art. 1585 c.c. la giurisprudenza è pacifica nel riconoscere l’azione anche al conduttore.
La norma di partenza, come per le immissioni sonore, è l’art. 844 c.c., il quale afferma: “Il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni di fumo o di calore, le esalazioni, i rumori, gli scuotimenti e simili propagazioni derivanti dal fondo del vicino, se non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alla condizione dei luoghi.
Nell’applicare questa norma l’autorità giudiziaria deve contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà. Può tener conto della priorità di un determinato uso.”
In ambito civilistico, dunque, assume un ruolo centrale il criterio della normale tollerabilità. Solo rumori o esalazioni che superano tale soglia sono tali da rendere possibile il ricorso a strumenti di tutela da parte di chi li subisce.
Naturalmente, per ottenere una condanna in giudizio occorre fornire la prova della sussistenza d’immissioni che superano la normale tollerabilità. Fondamentale, in materia di odori, il ricorso alla testimonianza; in altri casi, la strumentazione tecnica può essere certamente utile ad ancorare la richiesta a degli elementi oggettivi, ma la prova in questi casi è libera e liberamente valutabile dal giudice. È la situazione concreta a poterci orientare sul da farsi.
Le norme nazionali vigenti non contengono infatti disposizioni specifiche e valori limite in materia di emissioni di odori.
Eppure di odori si parla in relazione alla locazione di particolari impianti che possono avere un impatto in tal senso: si pensi alle discariche, ai depuratori, ecc.
Esiste una norma tecnica, la UNI EN 13725:2004, la quale si pone come scopo quello di un metodo per determinare in modo oggettivo la concentrazione di odori di un campione gassoso.
Si parla di analisi olfattometriche per valutare l’incidenza degli odori in un dato ambiente. Esistono anche strumenti elettronici, così detti nasi elettronici, in grado di aiutare a svolgere le suddette indagini.
I risultati di tali analisi, però, non costituiscono riferimenti certi e assoluti poiché il livello di tollerabilità di un odore è totalmente soggettivo. La strumentazione tecnica può essere certamente utile ad ancorare la richiesta a degli elementi oggettivi, ma la prova in questi casi è libera e liberamente valutabile dal giudice. È la situazione concreta a poterci orientare sul da farsi.
Sul versante del risarcimento del danno conseguente ad immissioni, si segnala la recente presa di posizione delle Sezioni Unite (n. 2611/2017), secondo cui il danno non patrimoniale da immissioni può essere risarcito anche nel caso in cui non sia stata documentata la sussistenza di un danno biologico. Infatti, se sono stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane (diritti costituzionalmente garantiti, e tutelati anche dall’art. 8 della C.E.D.U.), la prova del relativo pregiudizio può essere fornita anche attraverso presunzioni.
L’ odore del fumo della sigaretta in condominio
Tra gli odori che possono disturbare e creare a disagio, all’interno del condominio e non, c’è sicuramente quello proveniente dal fumo delle sigarette.
L’accordo Stato-Regioni del 16 Dicembre 2004, intervenuto per attuare la legge 3/2003 riguardo alla tutela della salute dei non fumatori, ha disposto che è compito dell’amministratore fare rispettare il divieto di fumo in condominio.
Nello specifico l’accordo Stato-Regioni prevede che “i dirigenti preposti alle strutture amministrative e di servizio di locali di pubbliche amministrazioni, aziende e agenzie pubbliche o di privati esercenti servizi pubblici, ovvero i responsabili di strutture private, fanno predisporre ed apporre i cartelli di divieto completi delle suddette indicazioni nei locali in cui vige il divieto“.
Tale incarico quindi spetta all’amministratore, che deve predisporre la segnaletica antifumo necessaria, e vigilare sul rispetto delle norme. La responsabilità ricade su di lui come il pagamento delle correlate sanzioni pecuniarie.
L’amministratore non è però l’unica figura che può vigilare sul rispetto del divieto, anche gli altri condomini e i frequentatori dell’immobile potranno effettuare richiami verbali nei confronti dei trasgressori e procedere con segnalazioni direttamente alle autorità competenti.
Il vicino può fumare sul suo balcone, pur essendo confinante con altri?
La risposta è sì: il proprio balcone di casa fa parte dell’appartamento ed è di “proprietà” del singolo condomino, per cui non gli si può vietare di fumare, ma si può fare appello al buon senso se, a causa delle sigarette, la libertà di uscire fuori al balcone viene limitata. . È fondamentale però ricordare che i mozziconi di sigaretta devono essere smaltiti in sicurezza, quindi è opportuno non lanciarli dal balcone, in quanto potrebbe configurarsi il reato di “getto pericoloso di cose“, punito con l’arresto fino a un mese o l’ammenda fino a 206 euro.
In questo caso specifico, l’amministratore di condominio non può intervenire in nessun modo, a meno che le emissioni di fumo non superino il livello di normale tollerabilità, che verrà stabilita dal giudice di pace di volta in volta.
Diversamente accade per i luoghi in comune del condominio, in cui è vietato fumare: è compito dell’amministratore di condominio stilare un regolamento condominiale, con accordo unanime, in cui si specifica il divieto di fumare nei luoghi comuni, contrassegnati con una segnaletica adeguata, e far sì che questo venga rispettato.
Nel caso in cui la normativa non venga rispettata, l’amministratore di condominio può intervenire richiamando i trasgressori ed in caso di inadempienza, segnalarli alle autorità competenti.
Quali sono le sanzioni per chi trasgredisce il divieto di fumare?
L’infrazione al divieto è punita con la sanzione amministrativa pecuniaria, il cui importo va da un minimo di € 27,50 ad un massimo di € 275,00 in caso di recidiva, come stabilito dalla L. n. 311/2004, art. 1, comma 189 (legge finanziaria 2005).
Inoltre, la sanzione viene raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di una donna in evidente stato di gravidanza o di bambini fino a 12 anni.