Ambienti di lavoro stressanti e ostili, ma anche pregiudizi, discriminazione e molestie possono comportare gravi rischi per la salute mentale

di Paolo Buzzelli

Anche la disoccupazione, la precarietà lavorativa e finanziaria e la recente perdita del lavoro sono fattori di rischio per tentativi di suicidio. E’ quanto sottolinea la Società Italiana di Psichiatria (SIP) in occasione della Giornata mondiale della salute mentale del 10 ottobre che l’Oms quest’anno ha scelto di dedicare all’intreccio tra lavoro, società e salute mentale. Al centro della Giornata, infatti, si legge in una nota della SIP, “ci sono da un lato i pazienti, la cui psiche è messa a dura prova da ambienti di lavoro stressanti e ostili, dall’altro i medici che, tra doppi e tripli turni, spesso in condizioni di scarsa sicurezza, con il crescente timore di rivalse legali, continuano a lavorare strenuamente per fronteggiare la valanga di richieste d’aiuto che arrivano ogni giorno. Senza contare la presenza delle nuove forme di povertà, delle tensioni sociali e della fragilità delle famiglie e dei giovani”.

“Come ricorda l’Oms, con il 60% della popolazione mondiale al lavoro, il 15% della quale affetta da un disturbo mentale, è necessaria un’azione urgente – spiega Liliana Dell’Osso, presidente della Sip – per ridurre lo stigma sul posto di lavoro attraverso la consapevolezza e la formazione e per creare un ambiente di lavoro più sano e inclusivo che protegga e supporti attivamente la salute mentale. Senza considerare come lo stigma crei una barriera all’occupazione e le persone affette da gravi disturbi mentali siano in gran parte escluse dal mondo del lavoro o impiegate in attività poco retribuite o insicure, spesso prive di tutele adeguate”.

Sotto il profilo strettamente giuridico ricordiamo che il datore di lavoro è responsabile per i danni alla salute causati al dipendente da un ambiente lavorativo troppo stressante, anche in assenza di atti qualificabili come mobbing.

Questo è quanto precisato dalla Cassazione Civile, Sezione lavoro, nell’ordinanza 19 gennaio 2024, n. 2084.

Il caso

La sentenza in esame riguarda la richiesta risarcitoria avanzata da un lavoratore nei confronti del datore di lavoro, diretta ad ottenere un ristoro a causa delle sofferenze psichiche patite in ufficio. La domanda risarcitoria era stata accolta in primo grado ma respinta in appello.

La Corte territoriale aveva rigettato la pretesa non avendo riscontrato l’intento persecutorio che rappresenta un elemento costitutivo del mobbing.

Avverso tale pronuncia, il dipendente aveva proposto ricorso per cassazione.

La decisione

Nell’esaminare il caso in oggetto, la Suprema Corte ha innanzitutto evidenziato la sussistenza dell’obbligo del datore di lavoro di astenersi da adottare scelte o comportamenti lesivi, già di per sé, della personalità morale del lavoratore, come l’applicazione di condizioni di lavoro stressogene, oltre a tenere comportamenti più gravi come mobbing, straining, burn out, molestie, stalking.

Secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale, è configurabile la responsabilità del datore di lavoro anche nel caso di un mero inadempimento che rientri in nesso causale con un danno alla salute del dipendente.

Orbene, ad avviso della Cassazione, la Corte territoriale avrebbe dovuto valutare, anche in assenza di un intento persecutorio, le varie condotte singolarmente, alla luce della violazione dell’art. 2087 cod. civ.

Tale circostanza era stata esclusa nella sentenza impugnata, in ragione dell’accertata insussistenza di un comportamento programmaticamente e volontariamente vessatorio.

La motivazione della Corte territoriale è perciò contraddittoria visto che, se da una parte viene riconosciuto il disturbo del lavoratore, determinato dallo stress correlato al lavoro, dall’altra parte non ha considerato la domanda dello stesso ricondotta alla violazione dell’art. 2087 cod. civ.

E’ noto che il lavoratore che agisce per ottenere il risarcimento dei danni causati durante lo svolgimento dell’attività lavorativa non ha l’onere di provare le omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza, ma spetta al datore di lavoro dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Dunque, una volta accertato il danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra i due elementi, il diritto al risarcimento del danno non è eludibile.

Nella vicenda esaminata, il Giudice di appello ha dato atto che era stato provato un danno alla salute, scaturito dalle condizioni lavorative, come certificato prima dall’INAIL, poi dalla CTU disposta nel giudizio di merito.

Secondo la Cassazione, il giudice di merito non ha valutato le varie condotte poste in essere dal datore di lavoro che, anche in assenza di comportamenti intenzionalmente vessatori nei confronti del lavoratore, possono essere state esorbitanti od incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, e così poste in violazione dell’art. 2087 cod. civ. anche eventualmente sotto il profilo della contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, quindi causative di pregiudizi per la salute.

In conclusione, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla Corte d’Appello che, in diversa composizione, dovrà procedere ad un nuovo esame e provvedere anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

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